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      Colpa imperdonabile per chi, con i pannicelli della modestia, cuopra le ambizioni della mediocrità.
      Io sono supremamente pigro e prodigiosamente attivo, per accessi
      , scriveva, di sè, Poe. E, come nel lavoro letterario, così in qualunque altra sua manifestazione. Sin anche il volto pallido e serio diveniva, a sbalzi, animato e infiammato: e mostrava, nei contrasti violenti fra la dolce melanconia dello sguardo e la piega sardonica delle labbra e l'imperiale atteggiamento del volto, in pari tempo affilato e massiccio, i profondi contrasti dell'anima.
      Come avrebber potuto, gli uomini mediocri, fra i quali Edgar Poe viveva, comprendere e giustificare l'enigma di uno spirito troppo ampio per rinchiudersi nelle strettoie della morale comune, di una genialità troppo esuberante per modificarsi, sia pur col volger degli anni, e per adattarsi alle ipocrite esigenze della vita normale? E chi, se non un altro uomo di genio, avrebbe compresa l'eccessività di una natura così squisitamente sensibile? Dovevano, dunque, apparire veramente sbalorditive e, fors'anche, comiche le spaventose depressioni, causate da inquietudini passeggere o da una temporanea impotenza a scrivere, e le esaltazioni frenetiche, dovute magari a una semplice frase di elogio, e le continue incoerenze di un'anima sempre vacillante tra sconforti cupi e fanciulleschi entusiasmi, tra misantropici disdegni e folli desiderii di gioia. Eccessività. L'uomo di genio che, allettato da un paradiso artificiale confortatore d'ogni tristezza, non cessava di bere se non quando gli mancavan le forze, era lo stesso uomo che, avvolto nel vecchio mantellone di soldato, passeggiava per lunghe ore sotto la veranda della casupola campestre, meditando i supremi misteri dell'universo e costruendo mentalmente il poema cosmogonico Eureka.


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Edgar Poe
di Pierangelo Baratono
Formiggini Editore
1924 pagine 58

   





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