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      A un tratto, Giorgio Perroni, che s'immergeva in quella melanconica estasi dell'ora e del luogo, scorse sull'ultima aiuola, che limita piazza Corvetto, e proprio in mezzo al verde tappeto, ora scintillante, che ne forma lo sfondo, un corpo umano steso supino. Lo credette appartenente a qualche ubbriaco. Ma il raggio diffuso della luna gli fece distinguere rapidamente il viso e le sembianze ben note del Pinzi. Si avvicinò di corsa trascinando seco Augusta. Entrambi si fermarono impietriti innanzi al corpo rigido e ghiacciato del vagabondo. La sua posa era naturale e semplice: aveva le braccia distese lungo il tappeto d'erba. Sul viso, fra il folto dei baffi e della barba, gli brillava un sorriso dolce e tenue, come di chi riposi. Anche gli occhi, larghi, aperti alla notte, avevano un'espressione rassegnata e felice.
      Com'era morto il Pinzi? Nessuno seppe spiegarlo. Forse, il povero filosofo vagabondo venne nella notte lunare, a salutare la terra, che amava tanto, e vi si abbandonò sopra, lasciando che il sangue a poco a poco gelasse nelle vene, nella dolorosa tranquillità dell'uomo, che, ormai, non ha più nulla al mondo che possa trattenerlo dal dipartirsene.
      La sua morte era forse un sacrificio e fors'anche un atto di amore.
      Chi avrebbe potuto svelare il segreto di quel cuore umile e buono, che per tanto tempo aveva battuto nel petto del filosofo vagabondo?
      La sua sparizione non lasciava, fra gli uomini, traccia alcuna, se non quella lieve di due lagrime, scorse sulle guance di una donna e di una parola pietosa, formulata dal labbro di un poeta.


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Genova misteriosa
Scene di costumi locali
di Pierangelo Baratono
pagine 280

   





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