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      Dàlli, dàlli! San Giorgio e Fregoso! Ammazza, ammazza! San Giorgio e Carretto! E la mischia s'impegnò d'ambe la parti accanita.
      Messer Pietro, uomo di partiti se altri fu mai, per mettere lo scompiglio in mezzo ai nemici e far vedere in pari tempo alla sua gente come pochi fossero costoro e in poco spazio ristretti, comandò di portare innanzi fascine incatramate, appiccarvi il fuoco e gittarle a tutta forza di là dalla chiusa. I molti che ancora non avevano potuto penetrarvi e che facean ressa al palancato, sopraffatti da quella pioggia di fuoco, dovettero dare indietro solleciti e sparpagliarsi pei campi; intanto una torbida luce rischiarò gli assalitori alle spalle e mostrò ai genovesi quanto poco di terreno avessero, con tutto il loro impeto, guadagnato i nemici. Frattanto il Picchiasodo, che non avea niente a fare del suo mestiere, e sempre si doleva di stare colle mani alla cintola, imbattutosi in una catasta di pali aguzzi che erano avanzati agli artefici, prese, colla fretta di un uomo che lavorasse a cottimo, a sfrombolarne gli assalitori. Volavano i tronchi l'un dopo l'altro, rombavano in aria, cadeano nel fitto dei combattenti, ammaccavano le cervelliere, rimbalzavano sulle braccia, chi coglievano di punta e chi di schiancio, facendo ognun d'essi il lavoro di quattro soldati. Anche il marchese Galeotto ebbe a saggiarne la forza, che uno di quegl'insoliti verrettoni gli portò via netta la scure dal pugno. Anselmo Campora seguitava a picchiare (e come sodo!) mostrando coi fatti di non averlo scroccato, il suo soprannome di guerra.


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Castel Gavone
Storia del secolo 15.
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1875 pagine 304

   





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