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      I lettori hanno già pratica del luogo; io aggiungerò che il Picchiasodo, saputo del comando dato al suo compagno d'armi, gli aveva raccomandato di salutargli tanto e poi tanto un certo ostiere suo amico, e di farsi dare un fiaschetto di quella malvasia, che teneva in serbo, per gli uomini di conto.
      Ohimè, povero mastro Bernardo, quantum mutatis ab illo! La frasca e l'insegna ce le aveva tuttavia sul portone; ma da parecchie settimane non vendeva più vino e l'accoglienza era triste. Gli ultimi fiaschi glieli avevano bevuti gli uomini del marchese, tornando dal combattimento alla Marina, e se egli non si era ritirato ancora nel Borgo, ciò doveva attribuirsi ad amore del suo povero nido e ad una tal quale superstiziosa idea che la sua fuga dovesse tornare di mal augurio alla patria. Fino a tanto che io sarò qua, pensava egli nel suo corto cervello, non ci verranno a squadronare i genovesi; e dopo tutto, chi terrebbe d'occhio queste quattro panche e questi quattro caratelli vuoti?
      Fu un brutto quarto d'ora per mastro Bernardo quello in cui i soldati genovesi comparvero all'Altino e fecero capo alla sua osteria. Ben si provò il dabben uomo a sorridere e a fare inchini a tutte quelle facce proibite (almeno, secondo lui, avrebbero dovuto esserlo in ogni paese ben governato); ma quando il comandante di tutti que' diavoli scatenati gli ebbe detti i saluti e l'imbasciata del Picchiasodo, di quell'arnesaccio che lo aveva fatto cantare da quel babbio ch'egli era e che oramai sentiva di essere, il povero mastro Bernardo fece a dirittura una smorfia.


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Castel Gavone
Storia del secolo 15.
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1875 pagine 304

   





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