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      Era un'ora, bruciata, quella in cui smontavamo: niente taglierini, adunque, e niente stufatino. Ci contentammo di due gallette, che inzuppammo in un bicchiere di vin bianco.
      Era il tocco dopo il meriggio, e si doveva aspettare un bel pezzo. Finito il nostro spuntino, ce ne andammo su d'un terrazzo, di fianco alla casa, guadagnato a colpì di piccone sulla falda dello scoglio.
      - È un ottimo osservatorio; - dissi all'amico. - Hic manebimus optime; non ti pare?
      - Sì, - mi rispose egli, - ma a patto che tu non incominci a parlar latino.
      - Lingua del Lazio, perbacco! e noi si va a Roma.
      - Per intanto siamo ancora a Quarto.
      - Ad quartum lapidem, - fui per soggiungere; ma mi trattenni in tempo. Amavo il mio maggiore, e mi appigliai al partito di guardarmi dattorno.
      La riva di Quarto ha fama di aridità, e fama meritata; anzi, può dirsi che sia tanto celebre per questo, come per la epica spedizione dei Mille. Nè solo è arido il lido scoglioso; arida, o quasi, è la lista di campicelli che corre tra la via provinciale e i monti vicini; i quali, poi, per non dar ombra al Fasce, loro primogenito, si serbano modestamente ignudi, non portando ombrello di pini, né d'altra ragione di piante.
      Pure, al tempo degli Scienziati, e del loro famoso congresso in Genova, la nudità di quelle montagne aveva impietosita un'intiera sezione di dotti. La pietà, in un congresso, finì con un ordine del giorno; l'ordine del giorno portò che quelle balze, di monte Fasce, di monte Moro e dei loro compagni minori, ricevessero una larga seminagione di pinocchi.


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Con Garibaldi alle porte di Roma
1867 - Ricordi e note
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1895 pagine 159

   





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