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      Ma non c'intenderemmo mai più, se queste benedette minuzie non fossero almeno brevemente accennate.
      Il conte Anselmo visitava i suoi dominii nelle alte valli della Bormida, col pretesto della caccia, che in ogni altra circostanza avrebbe potuto essere una buona ragione.
      Per quella volta il movente della gita era la curiosità di vedere quella bella Getruda, di cui gli aveva tenuto discorso il castellano Rainerio, e per la quale si faceva la gara dei falciatori.
      Quella del conte, uomo giovane ancora, amante del piacere, e pronto ad ammirar la bellezza più che non fosse inchinevole ad onorare la virtù, era una curiosità giustificata dai fatti che erano seguiti, domandando a lui un editto munito del suo comitale sigillo. Sicuramente era un fior di ragazza, quella figliuola di Dodone.
      Ma si doveva credere che fosse un miracolo di bellezza, una Venere ritornata in terra, per far girar la testa ai fedeli cristiani? No davvero; il conte non lo credeva, quantunque, per sincerarsene, si muovesse da Acqui in veste di cacciatore; pensava bensì di trovare una ragazza avvenente, ma non si aspettava nulla di meraviglioso.
      Nondimeno, voi sapete com'è fatto il cacciatore. Egli, che guarda poco le dame della città, e quasi non intende la bellezza, circondata di veli protettori e rinterzata da una sapiente associazione di colori e di profumi, va in estasi per una forosetta, incontrata sul margine di una fontana, o alla svolta di un sentiero boschereccio, col viso arso dal sole, e coi colori vivaci della salute sotto l'arsiccio del viso, e con la tranquilla audacia dipinta su quella fronte, agguerrita alle carezze del sole e agli ardori volgari di mandriani e bifolchi.


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Il prato maledetto
Storia del X secolo
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1909 pagine 213

   





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