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      E il povero Marbaudo non aveva mica immaginato cosa che fosse disforme o lontana dal vero. Per allora, la bianca e superba Getruda non vedeva che lui. In quell'umile ceto di innamorati egli solo regnava; doveva essere notato egli solo. Ma su tutta la sua classe imperava, per l'autorità avuta dal conte, il castellano Rainerio. Felice castellano, se nessun'altra autorità comparisse, superiore alla sua! Ma su lui, e su tutti i castellani della Langa, che amministravano la giustizia in nome del conte, e cavalcavano gloriosi e superbi lungo le valli, imperava un uomo più giustamente glorioso, più giustamente superbo: il conte Anselmo, su cui stavano due sole autorità, egualmente lontane ed invisibili.
      Getruda non lo aveva veduto mai da vicino; e da lungi a malapena due volte, mentre egli passava in mezzo allo stuolo dei suoi militi, nelle grandi cacce di Millesimo, e di Rocca Vignale, al suono festoso dei corni, preceduto da mute impazienti di cani da giungere.
      In quei momenti era un barbaglio di colori, uno scintillio di armi, uno sventolio di mantelli e di penne, tra cui si smarrivano le figure dei cavalieri.
      Getruda non ardiva ancora pensarci, ma già sentiva confusamente in cuor suo che quella era la vita, e tutto l'altro un invecchiare, aspettando la morte.
      E si paragonava allora ad un vecchio rovere che sorgeva da una balza, dietro la casa di Dodone; rovere solitario, condannato dal caso a nascer colà, mal nutrito dall'arido galestro dove aveva profondate le sue negre radici, triste al soffio gelato dell'inverno, malinconico ai primi tepori dell'estate.


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Il prato maledetto
Storia del X secolo
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1909 pagine 213

   





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