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      Questa era adunque la condizione del conte Anselmo; egli riteneva per sè ciò che era della Chiesa, ma che due parti di essa Chiesa, le Curie di Savona e d'Alba, si contendevano a spada tratta.
      Egli, del resto, era molto mutato da quello di prima. Per lui, davvero, non si poteva ripetere la frase biblica: "indurito è il cuore del Faraone." Profondamente scosso dal tristissimo fatto di Croceferrea, il conte Anselmo aveva fondato un'abbazia di frati sul territorio di Spigno, dotandola con liberalità singolare di privilegi e possessi; e ciò fino dal 991, un anno dopo i casi che abbiamo narrati.
      Così il povero conte aveva creduto di spegnere i rimorsi suoi, ed anche di scemare la collera del cielo.
      Ma egli pareva che ciò non bastasse ancora. La stregoneria che lo aveva tanto colpito nel manso di Croceferrea e nel prato di San Donato, durava ancora in quest'ultimo luogo, più paurosa che mai.
      Nell'anno 991, che fu quello dopo la gara dei falciatori, il vasto maggese non diede un fil d'erba, quantunque il fieno si vedesse rigoglioso lungo le ripe e le falde delle circostanti colline. E neppure un fil di erba ci nacque nell'anno seguente; in guisa che parve conveniente di disfare il prato e di mettere il campo a frumento.
      Ma neanche allora il terreno fruttò; nè spica si vide, nè principio di stelo.
      Quella vasta pianura, tondeggiante come uno scudo greco, rimase sterile per sette anni alla fila, triste a vedersi nella sua grigia nudità, in mezzo al verde smagliante dei colli. Pareva che la falce di Legio non avesse soltanto mietuta l'erba di quel prato, ma anche spenta la vitalità del terreno.


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Il prato maledetto
Storia del X secolo
di Anton Giulio Barrili
Fratelli Treves Milano
1909 pagine 213

   





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