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      Neppur si riattacca al melanconico e sentimentale recitativo del 500-600. Deriva, se mai, dal recitativo bizettiano (da quello per es., dell'ultima scena della Carmen, chè i veri recitativi secchi di quest'opera non furono scritti dal Bizet, come ognun sa, ma dal suo amico Guiraud), recitativo drammatico, duttile, pieghevole a esprimere con naturalezza i più diversi sentimenti. Ma, in realtà, è una specie di recitativo nuovo, anzi più un canto libero ogni tanto solcato da esclamazioni liriche dell'orchestra, che un vero e proprio recitativo. In opere posteriori il Mascagni ha pur troppo tentato di abbandonare questo suo bel tipo di recitativo per riprendere anch'egli il recitativo svenevole e civettuolo della scuola massenettiana. Ma non avendo il Mascagni le pessime doti di leggerezza melliflua che ci vogliono per parlar musicalmente con tale leziosaggine melensa, ne è venuto fuori un linguaggio ibrido, che non contenta nessuno con la sua goffagine provinciale, che vuol sembrare disinvoltura da viveur.
      La canzone di Alfio, che segue l'incontro delle due donne, è uno dei pezzi più scadenti dell'opera. In esso appare, la prima volta in Mascagni, il vizio dell'enfatica eloquenza inutile, vizio inoculato nella musica moderna dal dittatore a vita di essa musica: Riccardo Wagner. Lo spunto della canzone, un triviale motivuccio da operetta, è scelto arbitrariamente dall'autore a reggere un grandioso edificio corale e strumentale di nessun valore musicale, salvo che musica non diventi sinonimo di fragore.


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Pietro Mascagni
di Giannotto Bastianelli
Ricciardi Napoli
1910 pagine 103

   





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