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      E un fortissimo orchestrale, procedimento classico ormai dell'arte operistica Mascagnana, distende e quindi scioglie l'ansia delle scene dolorose a cui abbiamo assistito.
      Ma, ahimè!, il dramma umano si disfà nell'onda torpida ed ambigua del simbolismo. Il 3° atto non è più poesia; è giuoco, giuoco vuoto dell'immaginazione sopra lo sterile sfoggio dei simboli vacui. Certo, se togliamo il preludio, spenta melodia inutilmente sorretta dalle risorse d'una strumentazione suggestiva nella sua acida stranezza, la scena dei cenciaioli e dell'a solo di Iris ha leggiadrie di forma e delicatezze di malinconie. Specialmente mi pare notevole per il suo schietto umorismo, contrastante, a dire il vero, con il solito carattere di fradicia poesia che hanno i simboli dell'Illica, la scena dei cenciaioli intercalata da quella deliziosa canzone alla luna, ove il Mascagni fa suoi e purifica certi raffinati procedimenti tonali dell'armonia dei decadenti moderni. E l'opera si chiude, mefistofelianamente, con la ripetizione dell'Inno al sole.
      Non dunque la compiutezza della Cavalleria, sebbene, rispetto alle altre opere del Mascagni, l'Iris, anche nelle parti errate, sia da porsi accanto alla Cavalleria più del Ratcliff e dell'Amico Fritz; nè uno di quei raggiungimenti e possessi coscienti del proprio contenuto che facciano creare a un artista il capolavoro. Dalla Cavalleria all'Iris non è processo di crisi. La leggerezza degli intendimenti artistici ha semplicemente portato il Mascagni a ridarci con l'Iris un'opera più ispirata delle altre, ma non il capolavoro.


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Pietro Mascagni
di Giannotto Bastianelli
Ricciardi Napoli
1910 pagine 103

   





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