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      Gli impiegati ricevevano il soldo ad intervalli, ed a piccoli acconti: l'armamento dei nostri soldati non progrediva: i membri del governo provvisorio «dell'imbarazzo delle finanze, dell'impossibilità di comperar fucili, d'equipaggiare le truppe, alto e sempre parlavano». Era spesso discorso delle strane misure, che per procacciarsi denari un segretario del governo provvisorio ebbe a proporre; onde poter supplire ai mensili appuntamenti «bisognava, diceva egli, andare d'uscio in uscio, e dimandare il denaro necessario», e come gli si faceva osservare che i cittadini non avrieno contribuito, e tutto finiva, «Ebbene in tal caso, soggiungeva, ci faremo seguire da una folla di popolo: a lui denuncieremo i ricalcitranti». Eppure quelli che al popolo ogni parte negli affari politici niegavano - a socio lo volevano in ufficio sì vile.
      Fra tutte queste agitazioni si sparse la voce del malcontento dell'armata piemontese. Persone reduci dal campo dicevano il re in continua e disperata lotta con i suoi luogotenenti, e soldati, che la pronta riunione della Lombardia al Piemonte, la conclusione di una pace, ed il ritorno in patria instantemente chiedevano: senza grave pericolo non poter più il re alle brame del suo popolo opporsi; soggiungevano, re costituzionale egli era, come tale di sua condotta, di suo agire dover rendere stretto conto alle camere di Torino. Tutte queste dicerie, come è facile indovinarlo, produssero l'effetto: si propose alla Lombardia di bel nuovo una questione, che, per evitare discordie, aggiornare sino a guerra finita si doveva.


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L'Italia e la rivoluzione italiana
di Cristina di Belgioioso
Remo Sandron
1904 pagine 169

   





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