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      Tu sai cosa è divenuta la mia povera macchina dopo la breve malattia del 1831, e la non meno terribile del 1832, sofferta da me in Fossombrone, benché di minore durata. Da quelle due fatali epoche il mio sangue è in continuo stato d'irritazione; e se io voglia esser sincero, non un solo giorno passò mai perfettamente contento di me. Conosci tu bene tutti i motivi accumulati assieme per mantenere in me vivo questo principio d'irritabilità; e quindi l'aumento dell'umor mio malinconico, al quale non trovo sollievo che nella pace della solitudine. Solitudine poi senza qualche applicazione per me è impossibile: dunque ecco il quadro delle mie attuali necessità.
      Per ritornare all'espressioni sfuggitemi nella mia lettera del 26, ti ripeto che io in quel giorno non era realmente malato, ma purtuttavia già da sei giorni mi sentiva molestato dalle mie accensioni ora alla gola, ora in tutta la bocca, e nel collo, e pel petto, e per la schiena, e per le spalle, e per le viscere: un po' in qua e un po' in là. Purtuttavia nella stessa sera, che era placidissima e temperata volli tentare di andare ad udire la Straniera al teatro, e, come lo aveva preveduto, mi annojai terribilmente. Nel Mercoldì stetti così così: il giovedì 28 ci crebbe il mio fuoco, malgrado le grandi bibite che ho sempre fatte, malgrado rigorosa dieta che sempre osservo, e malgrado l'astinenza dal vino. Così me la passai ardendo sino al sabato 30, nel qual giorno mi si fece trarre dieci once di sangue. Ma il dolore, particolarmente nel petto cresceva in un grado ben doloroso, dimodoché domenica fu di precisa necessità di cavarmi un'altra libra di sangue che appena caduto nel bicchiere si coagulò in modo, che dopo fasciatomi il braccio io voltai il bicchiere sottosopra, e il sangue vi restò fisso come fosse di cera. Mi hanno dato dei calmanti e dei purganti: mi han fatto dei clisterii, ma col solito vano successo.


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Le lettere
di Giuseppe Gioachino Belli
pagine 963

   





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