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      Quomodo sedet sola civitas plena populo, ripeto io talora fra me quando mi trovo tra la folla di tante liete o apparentemente liete persone. Per me è deserto quel luogo dove nessuno m'appartiene ed io non appartengo ad alcuno. Non è vero legame dove manca vera contemperanza di sensazioni. I pochi miei buoni amici mi amano, ma cosa possono fare per me? Darmi teorie che io già conosco senza saper condurle a pratica malgrado de' miei continui sforzi. Eppoi i miei pochi amici non possono vivermi sempre vicini; e allorché essi mi lasciano io tosto rientro nella mia desolazione fossi anche immezzo a un festino. Ma basti di ciò.
      Perdonami tante inutili querimonie. Sei però degno di ascoltarle perché la natura ti privilegiò di un cuor tenero, che la sventura ha poi migliorato.
      Ho parlato a diversi del Gioia sulla influenza de' climi etc. A farlo apposta nessuno conosce quest'opera.
      Va' mo intorno salutandomi tutti.
      Orsolina così così. Gli amici e i Pazzi m'incaricano delle lor solite litanie.
      Sono il tuo Belli.
     
      LETTERA 317.
      A GIACOMO FERRETTI - ALBANO
     
      Di Roma, l'ultimo giorno di giugno 1838 (sabato)
      Ore 5 pomeridianeC. A.
      Dal Professor Silvagni ebbi il plico col tuo Foglio e Compagni. (Il foglio principale restò meco e i compagni vennero diramati unusquisque in provincia sua. I due allo Zampi e al De Belardini gli ho portati subito io: l'altro al Terziani l'ho inviato a spese delle gambe pazzesche.)
      Te Deum! Laus Deo! Agimus tibi gratias! Sit nomen Domini benedictum! Quando dal divieto di discendere quattro gradini e calare di un piano si trapassa al permesso di transferirsi a un Duomo e ad una villa Doria, convien pur dire che le faccende dalla parte de' cortili sien così quiete e rassicuranti che un professore igiaco possa smargiassarla da Giulio Cesare, esclamando: Veni, vidi, vici. E colga il malanno chi teco non se ne rallegra.


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Le lettere
di Giuseppe Gioachino Belli
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