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      E così questo povero Belli ha avuta la vostra celeste letterina del 20 corrente, l'ha letta, l'ha riletta, e poi l'ha studiata, e finalmente ha esclamato: Oh, la dolcissima cosa! che se in questo beato secolo di tribuna e di calcoli fosse lecito il turbare la requie alle ceneri de' Numi ed alle ossa delle Fate, io, da buon pastorello di Arcadia, vi canterei come i vostri caratteri abbiano rinnovato sull'ira mia quel miracolo stesso che già le vipere di Medusa operarono sulla balena di Andromeda, e lo scudo di Atlante su quell'altro animalaccio di Olimpia. Tenendomi però nel giusto mezzo fra le vecchie e le nuove dottrine, non profanerò, spero, la moderna filosofia con l'assicurarvi essere pe' vostri incantesimi caduto dal mio petto lo sdegno, al modo che il divino balsamo fece uscire il ferro dalla gamba di Enea. E tutte queste perle di erudizione ve le regalerei ancora a compensare il seducente quadretto da voi dipintomi della riposata cameruccia in cui fingete seguir dovrebbe un nostro ingenuo colloquio. Ma questo colloquio accadrà egli più? Sino a tutto il 43 (cinque anni!) no certamente; e poi?... Dopo io sarò vecchio, avrò la podagra, e rimarrò incapace di sentire il fuoco de' vostri discorsi. Voi mi avete mandata una lettera aperta: io ve ne rendo una chiusa; ma in ogni modo la penna non è mai buona procuratrice della lingua. La mia salute? eh, la mia salute si risente della tristezza del mio animo; e questo ve lo dico sul serio come vi direi tante altre cose che non vi dico. Non badate alle mie barzellette. Richiamato ai tiberini, dopo dieci anni di silenzio, recito parole che li fanno sbellicare dalle risa, mentre pure io scrissi coi sospiri sul labbro e colle lacrime agli occhi.
      Conosco il tasto della ilarità. Tocco quello, ed esso fa l'uficio suo. Io rimango intanto freddo e malinconico.


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Le lettere
di Giuseppe Gioachino Belli
pagine 963

   





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