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      Ti arriverebbe la mia risposta comodamente prima della vostra partenza di costì. In questo punto il cielo sembra nuvolo, ma è nebbia. Il tempo dunque non pare inopportuno pel viaggio.
      Ecco la lettera delle 6. Dio sia ringraziato.
     
      LETTERA 659.
      A ORSOLA MAZIO BALESTRA - ROMA[21 ottobre 1859]
      Mia cara Cugina
      È Santa Orsola e non vengo a vederti! Dopo tante obbligazioni che ti professo! Ma ti rattristerei anziché rallegrarti co' miei poveri augurii. Oggi in tua casa è giorno di festa, e qui con me abita la desolazione. Questi poveri tre orfanelli non istanno bene: io mi sento male: dunque perdonami la mia mancanza, e Dio renda più felice te ne' tuoi figli. Ah! non avrei neppur dovuto scriverti questo biglietto, il quale non poteva riuscir che accorante.
      Saluto tutti-tutti di tua famiglia, in nome anche di questo disgraziato mio Ciro, e mi ripeto di vero cuoreIl tuo aff.mo ed obb.mo cugino
      Giuseppe Gioachino Belli
      Di casa, Venerdì 21 ottobre 1859.
     
      LETTERA 660.
      AL PRINCIPE PLACIDO GABRIELLIDi Roma, 15 gennaio 1861
      Signor Principe
      Mi fo premura di riscontrare l'onorevol suo foglio del 2 corrente gennaio, giuntomi dal di Lei palazzo in domenica 13.
      Il parlar romanesco non è un dialetto e neppure un vernacolo della lingua italiana, ma unicamente una sua corruzione, o, diciam meglio, una sua storpiatura.
      Un dialetto, ed anche un vernacolo, è indistintamente parlato da tutte le classi del popolo a cui appartiene, salvo l'uso promiscuo dell'idioma illustre in chi lo abbia appreso dalla educazione o dai libri. Non così del romanesco, favella non di Roma ma del rozzo e spropositato suo volgo.
      Nei vari dialetti o vernacoli si può dir tutto, perché nati ed esercitati fra le bocche di chi può sapere e dir tutto: nel linguaggio di una plebe si può dir poco o nulla, perché la vera plebe difetta di vocaboli come di notizie e di idee.


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Le lettere
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