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      Quando leggevo l'Ordine Nuovo, specialmente nel suo primo periodo, quando era periodico, la suggestione delle sue continue esaltazioni della grande industria come formatrice di omogeneità classista, di maturità comunista degli operai d'officina, ecc., era in me respinta da considerazioni d'ordine psicologico.
      Immaginavo, ad esempio, Gramsci piovuto a Torino dalla nativa Sardegna, e preso tutto dagli ingranaggi della metropoli industriale. Le grandi manifestazioni, la concentrazione di operai specializzati, la vastità febbrile del ritmo della vita sindacale della città industriale – mi dicevo – l'hanno affascinato. La letteratura bolscevica russa mi pareva pantografare lo stesso processo psichico. In un paese come la Russia, dove le masse rurali erano enormemente arretrate, Mosca, Pietrogrado e gli altri centri industriali dovevano parere delle oasi della rivoluzione comunista. I bolscevichi dovevano, quindi, spinti dall'industrialismo marxista, essere condotti a infatuarsi della fabbrica, come i rivoluzionari russi dell'epoca di Bakunin erano condotti a infatuarsi della cultura occidentale.
      In Italia, la mistica industrialista di quelli dell'Ordine Nuovo mi appariva, quindi, come un fenomeno di reazione analogo a quello del futurismo.
      Un altro aspetto che mi pareva esplicativo era quello della naturale tendenza che hanno i tecnici industriali, tendenza che ha corrispettivi in tutti i campi della specializzazione, a vedere nel fatto «industria» l'alfa e l'omega del progresso umano.


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Umanesimo e anarchismo
di Camillo Berneri
pagine 88

   





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