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      Certo, diss’io, la poesia dell’Italia con tutte l’arti e gli studi dopo sì strane vicende cambiata aver denno del tutto fortuna e stato. Qual esser può mai poesia d’un popolo che ha tanto usato co’ barbari e in tanto pregio mostra d’avere le barbare poesie? Né veramente altro che barbara mi parve quella che udii leggere poco dianzi, in cui né dolce armonia facea sentirsi alcuna, né concerto alcun musicale e soave all’orecchio. E se il nativo linguaggio con la mescolanza corrompesi sempre de’ linguaggi stranieri, che tanto in Italia son famigliari, come ponno eleganti poeti tra gl’italiani formarsi? Queste cose dicea tra me stesso, quando veduta mi venne poco lontano un’altra adunanza di varie persone raccolta in un luogo su la pubblica via, che pieno era di libri e di lettori. Erano i libri pur gallici la più parte, e fui per credere più che mai che Roma fosse alla fine in poter dei Galli venuta, né sempre sì vigilanti e propizie aver l’oche sue conservato il Tarpeo. Ammirava frattanto il gran numero de’ volumi, la lor vaga forma ed ornata, e parvemi somma gloria dell’umano ingegno così rara invenzione, onde moltiplicavansi a sì poco costo e con tanta facilità l’opere dotte ed ingegnose. Ma gran danno pur sospettai poter venire alle lettere da ciò stesso, e massimamente alla poesia, che di pochi esser dee, per poter esser gentile ed illustre. Il fuoco poetico sempre fu sacro, e a pochissimi confidato, come quello di Vesta. Or questa multiplicità per cui sino il volgo può tutte l’opere avere in mano, e ognun può farsi a talento autore e poeta della nazione, non deve ella rendere popolare la poesia, che già col diletto trae seco ognuno ed invita a cantare?


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Lettere Virgiliane - Lettere Inglesi e Mia Vita Letteraria
di Saverio Bettinelli
1758 pagine 205

   





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