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      A’ nostri tempi non uomini nascer, dunque, ma pecore predicava, la man di Dio non mettere al mondo più di quelli ingegni, esser chiusa la strada per sempre dopo che essi vi son passati. Greci e latini doversi dunque tradurre e studiare; non italiani, e molto meno francesi, inglesi e tedeschi, le quai genti, per natura di clima e di temperamento, non esser atte ad alcuna opera dell’ingegno. Bello era però udir le sue sentenze intorno a’ libri e agli autori più illustri. Newton, Leibnizio, Galileo, con tutte le accademie d’Europa e le loro fatiche ed opere di un secolo, niente hanno fatto che pregiar si debba, o sol quello hanno fatto di bene che fatto era già dagli antichi. Pappo, Archimede, Apollonio, Euclide, non aver bisogno delle costoro illustrazioni, e doversi come delitto punire il dare ai giovani gli elementi di Euclide in mano che rischiarati siano e più facili renduti da moderne spiegazioni profane. Pensate poi come inorridiva al nome di tragedia che Sofocle od Euripide non avessero fatta, e di commedia che non venisse da Aristofane, da Plauto, da Terenzio. Con più mansuetudine sofferiva gli autori vostri del Cinquecento, massimamente in questo genere, perché fedelmente si eran tenuti all’imitazione di quelli senza osar metter piede fuori di quelle reverende vestigia. Il Trissino, adunque, il Giraldi, il Rucellai, e l’altra torma pedissequa teneva in qualche stima; ma Cornelio, Racine, Voltaire e i lor pari come feccia delle lettere riguardava, né nulla aver essi di buono, e tutti errori e deformità nelle lor opere accogliersi raffermava.


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Lettere Virgiliane - Lettere Inglesi e Mia Vita Letteraria
di Saverio Bettinelli
1758 pagine 205

   





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