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      Ma il conte insistette fermamente, dicendo fra le altre cose, che il mio mestiere di cacciatore era pericoloso, e che egli aveva bisogno di vedere ogni giorno colui che gli aveva salvata la vita. Sicchè io mi lasciai piegare alla sua volontà, e mi posi al suo servizio in qualità di cameriere a condizioni molto vantaggiose. Io guadagnava assai più che facendo il cacciatore, e poteva così provveder meglio alla sussistenza de' miei vecchi genitori. Ma le mie armi e la mia vita libera e avventurosa mi stavano sempre nel pensiero. Io aveva venticinque anni quando lasciai il mio primo stato, e ci volle del tempo per accomodarmi al nuovo, e per cambiare la mia rozzezza nativa colle maniere garbate e proprie del servitore. Il conte però era con me la stessa bontà, e tollerava le mie goffaggini senza dar segno di avvedersene, o tutt'al più facendo un certo sorriso piacevole, che esprimeva il compatimento e l'indulgenza. Questo suo modo di sopportare la mia inettitudine mi spronò ad impiegare tutto lo zelo e tutta l'attenzione di cui era capace, e finii col diventare un abile servitore come qualunque altro. Il conte era vedovo con un figlio unico, da lui amato ciecamente, vale a dire di quell'amore che non lascia vedere i difetti della persona amata e ne crea in lei di nuovi. Questo suo idolo era cresciuto fino ai venti anni trascurato nell'educazione, e avvezzo a fare la propria volontà quasi sempre capricciosa e irragionevole. Egli era caparbio, impetuoso, amico dell'ozio e del darsi bel tempo.


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Tre racconti sentimentali
di Paolo Bettoni
Borroni e Scotti Milano
1855 pagine 106