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      Nella lettera che i Romani scrivono a Corrado e gli mandano con messi speciali, la loro principale premura è di provargli che il moto fatto da loro è tutto quanto a beneficio dell'impero. Essi si sono proposti di metter questo nella condizione in cui era a' tempi di Costantino e di Giustiniano, che tennero tutto l'orbe nelle lor mani col vigore del Senato e del popolo romano. Vogliono, dunque, che senato e popolo sieno ripristinati nei loro diritti, ma ciò non col danno dei diritti dell'impero, bensí a conferma di essi. Perciò, chiedono all'imperatore che venga a stare nella città che è capo del mondo, e rimosso ogni ostacolo di Clerici, venga a dominare da essa l'intera Italia e il regno teutonico, piú liberamente e meglio che tutti gli antecessori suoi. E il concetto della lettera è riassunto o piuttosto espresso anche meglio in cinque versi in fine, che voglion dire «il re possa; checché egli desidera, lo ottenga sopra i nemici; tenga l'impero; risieda a Roma; regga il mondo, principe della terra, come fece Giustiniano; Cesare prenda ciò ch'è di Cesare; il Pontefice il suo, secondo comanda Cristo, a parte che Pietro paghi tributi.
      Non si vede ragione, per negare, come altri fa, che fossero idee d'Arnaldo anche queste. Non era dei tempi il respingere il concetto della potestà imperiale; e il fondare tutto su questa il governo dello Stato, subordinandogli l'autorità pontificale, è ancora la proposta piú ardita che si potesse fare, la piú contraria oramai al pensiero della mala Papalis Curia, com'è chiamata nella lettera stessa.


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Arnaldo da Brescia
di Ruggero Bonghi
pagine 61

   





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