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      Così non approvò nè un nuovo assetto dell'imposta fondiaria su un catasto provvisorio, nè accettò di surrogare un'imposta unica sulla rendita alle parecchie e svariate che nutrono i bilanci attivi d'ogni Stato. Perciò andò introducendo con raro coraggio, sfidando così le calunnie delle persone civili come le ire, talvolta persin minacciose, delle plebi, parecchie imposte già in uso oltremonti, con le quali si colpiva le ricchezze investite nei fabbricati urbani, ne' commerci, nelle industrie. Se non riuscì con questo a colmare del tutto la deficienza de' proventi rispetto alle spese, vi s'era già avvicinato di molto, prima che la nuova guerra del 1859 scoppiasse; anzi si può dire che quando, come davvero non si deve, non si tenga calcolo delle spese cagionate dalle grandiose opere pubbliche intraprese, il ragguaglio tra l'entrata e l'uscita s'era affatto ottenuto.
      Ma il Cavour non credette che queste semplici misure di finanza potessero, non aiutate da profonde modificazioni nelle leggi economiche, produrre il restauro dell'erario pubblico. Gli pareva che si dovessero d'ogni parte stimolare le forze produttive del paese, perchè, aumentata la ricchezza pubblica, questa potesse tollerare più facilmente i nuovi balzelli e gittare maggiori somme nelle casse dello Stato. Nè per produrre questo fine trovò altro mezzo migliore che l'applicare gradualmente il sistema del libero scambio, abbassando a mano a mano le tariffe dei dazî sui vini sulle sete, sui bestiami, e delle poste, e migliorando con delle strade ferrate da ogni parte dello Stato intraprese o promesse, le comunicazioni da provincia a provincia, e dal porto di Genova coi paesi di Germania.


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Camillo Benso di Cavour
di Ruggero Bonghi
1924 pagine 116

   





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