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      La servitù contratta dal pensiero italiano per la smania dell'erudizione cooperò grandemente a pervertire le lettere, a renderle dottamente sterili, a tôrre ogni importanza agli uomini che degli studi facevano particolare professione. Così col ruinare delle istituzioni, lo scadere dei caratteri e delle virtù pubbliche, caddero gl'ingegni, e in tanta e molteplice fecondità non videsi, se non di rado, una produzione importante e durevole. L'arte si ridusse tutta alla forma, la scienza a poco più che un giuoco di memoria, la poesia a passatempo e trastullo.
     
      Or questi dotti occupantisi quasi esclusivamente non delle cose ma delle parole, non della idee ma delle forme, desiderosi di quiete e di ozio si rifuggirono nelle corti, dove loro aprivasi un largo campo alle esercitazioni rettoriche. E fu bello allora vedere cotesti ammiratori entusiasti dell'antichità servirsi delle frasi di Cicerone, di Livio, di Tacito e di altri liberissimi intelletti a coprire la tirannide dei principi protettori, a scusarne le iniquità, a vestire concetti e pensieri servili. E non andò guari che alle mani loro, entrati molto innanzi nella grazia dei potenti, venne affidata e commessa l'educazione dei giovani principi; onde scappò fuori in brevissimo tempo una folla di principi facitori di rime, di sermoni, di dicerie, i quali circondati da letterati, filologi, eruditi, poeti e pedanti lasciavano a ministri, o scellerati o inetti, la cura dello stato, per potere più tranquillamente sacrificare alle muse.


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Istoria fiorentina
di Leonardo Bruni
Le Monnier Firenze
1861 pagine 852

   





Cicerone Livio Tacito