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      La chiesa cattolica era, a quest'epoca, proprietaria feudale della più gran parte del suolo inglese. La soppressione dei chiostri, eccetera, ne gettò gli ambienti nel proletariato. I beni stessi del clero caddero nelle mani dei favoriti reali, o furono venduti a vil prezzo a cittadini, a fattori speculatori, che incominciarono dal cacciare in massa gli antichi censuari ereditari. Il diritto di proprietà della povera gente, sopra una parte delle decime ecclesiastiche, fu tacitamente confiscato. Nel quarantesimo anno del regno di Elisabetta, si dovette riconoscere il pauperismo come istituzione nazionale, e stabilire la tassa per i poveri. Gli autori di questa legge si vergognarono di dichiararne i motivi, e la pubblicarono senza alcun preambolo, contrariamente all'uso tradizionale. Sotto Carlo I, il Parlamento la dichiarò perpetua, e non fu poi modificata che nel 1834. Allora divenne pei poveri un castigo ciò che loro era stato originariamente accordato come indennità delle espropriazioni subite.
      Al tempo ancora di Elisabetta, alcuni proprietari fondiari e alcuni ricchi fattori dell'Inghilterra meridionale si riunirono in conciliabolo, per approfondire la legge sui poveri recentemente promulgata. Ecco un estratto del sunto dei loro studi, sottoposto all'avviso di un celebre giureconsulto di quel tempo:
      Alcuni ricchi fattori della parrocchia hanno progettato un piano molto saggio, con il quale si può evitare ogni sorta di turbolenza nella esecuzione della legge. Essi propongono di far costruire nella parrocchia una prigione di lavoro.


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Compendio del Capitale
di Carlo Cafiero
pagine 112

   





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