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      Eduardo VI. Uno statuto del primo anno del suo regno, 1547, ordina che ogni individuo refrattario del lavoro sia dato per ischiavo alla persona che l'avrà denunziato come vagabondo. (Così per avere a suo profitto il lavoro di un povero diavolo, non si aveva che a denunziarlo come refrattario del lavoro.) Il padrone deve nutrire questo schiavo con pane e acqua, e dargli di tanto in tanto qualche leggera bevanda e gli avanzi di carne, che egli giudicherà conveniente. Egli ha il diritto di costringerlo ai servizi i più disgustosi con il mezzo della frusta e della catena. Se lo schiavo si ostina per una quindicina di giorni, è condannato alla schiavitù perpetua e sarà marcato, a ferro rovente, con la lettera 'S' sulla guancia e sulla fronte; se egli è fuggito per la terza volta, sarà ucciso come ribelle. Il padrone lo può vendere, legarlo per testamento, fittarlo ad altri a guisa di ogni altro mobile o bestiame. Se gli schiavi macchinano qualche cosa contro i padroni, devono essere puniti con la morte. I giudici di pace, ricevutone avviso, sono obbligati a seguire le tracce di questi cattivi arnesi. Quando è preso qualcuno di questi straccioni, lo si deve marcare, con ferro rovente, con la lettera 'V' sul petto, e ricondurlo al luogo della sua nascita, dove, carico di ferri, egli dovrà lavorare sulle pubbliche piazze. Se il vagabondo ha indicato un falso luogo di nascita, egli deve diventare, per punizione, lo schiavo a vita di questo luogo, dei suoi abitanti e della sua corporazione; lo si marcherà di una 'S'. Il primo venuto ha il diritto d'impossessarsi dei figli dei vagabondi, e di ritenerli come fattorini, i ragazzi fino a 24 anni, le fanciulle fino a 20. Se prendono la fuga, essi diventano, sino a questa età, gli schiavi dei padroni, che hanno diritto di metterli ai ferri, di far loro subire la frusta, eccetera, a volontà. Ogni padrone può mettere un anello di ferro al collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo, onde meglio riconoscerlo ed essere più sicuro di lui.


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Compendio del Capitale
di Carlo Cafiero
pagine 112