Dato in Milano, l'anno 1551.
Ben presto, a capo dell'arcidiocesi milanese venne uno de' più zelanti promotori della riforma cattolica, Carlo Borromeo. E in relazione a quanto accennammo da principio, è notevole l'avversar che fecero i Milanesi a un santo, il quale, a tacer la pietà, fu ammirato per una splendidissima carità e per insigni istituzioni, tanto che, in un tempo dei più esorbitanti, fu presentato all'imitazione come modello di ottimo patriota53. L'emendazione ch'egli volle fare dei frati Umiliati gli concitò l'inimicizia di questi, spinta fino a tirargli una fucilata. I gran savj milanesi poi mormoravano che il Borromeo volesse far troppo; pretendesse al monopolio della carità, anzichè lasciar che tutti la applicassero come più voleano; criticavano quel che facea, suggerivano quel che avrebbe dovuto fare; asserivano che il tanto suo adoprarsi venisse per ambizione d'esser nominato, per fare scomparire gli altri, per acquistarsi l'aura popolare. Ai pensatori s'insinuava come le tante sue riforme fossero puerili, da sacristia, come volesse sostituire in man de' nobili il rosario alle spade, i confratelli ai bravi, i tridui ai duelli, invilendo così la nazione milanese. Alla plebe si insinuava com'egli co' suoi divieti contro le profanazioni della festa, contro il prolungamento delle gazzarre carnovalesche, diminuisse i divertimenti, che pur sono la ricreazione del povero popolo e un giusto sollievo dopo tante fatiche. Poi, sempre per patriotismo, s'insinuava all'autorità ch'egli voleva far prevalere la sua giurisdizione, a scapito della secolare; che invadeva le competenze del municipio o del governo; che, durante la peste, quando i governatori erano fuggiti ed egli era rimasto a dividere ed alleviare i patimenti, aveva sin fatto decreti ed esecuzioni, represso i ribaldi, e altri atti, che son devoluti solo ai magistrati.
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