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      Mentre si allontanava, chiamai la cameriera, e le domandai se lo conosceva di persona, o di nome: quella, nativa di Reggio, rispose conoscerlo appieno.
      Chiamavasi Carlo *, ed era il primogenito di una famiglia, non molto ricca, ma sufficientemente agiata.
      L’immagine dell’avvenente persona presentavasi ognora alla mia mente, rivestita di forme ideali. Le ore della notte mi sembrarono eterne, il giorno seguente lunghissimo, il lavoro noioso, le lezioni fastidiose; desiderava con ansietà veder giunger l’ora nella quale mi sarebbe dato il permesso d’uscir sul verone favorito, per rivedere l’oggetto, che dal giorno innanzi sovraneggiava tutti i miei pensieri.
      L’ora finalmente arrivò. Corsi al balcone; indicibile fu il mio contento nel vederlo fermato sotto lo stesso tetto. S’incontrarono i nostri occhi in un lampo medesimo: diventai di porpora. Carlo s’avvide del mio imbarazzo; un leggero sorriso sfiorò le sue labbra, e modestamente avvicinando la mano al cappello, mi salutò. Quale temerità da parte mia! A quel saluto corrisposi tutta tremante, commossa, confusa: io passava dall’impersonalità della fanciullezza alla coscienza dell’espansiva individualità.
      Da quel momento non rinvenni più pace; carissimo m’era però l’averla smarrita. Le sofferenze dell’amore, specialmente del primo, sono incantevoli: un sol momento di contento compensa mille dispiaceri sofferti. Quanti segreti conforti non mi procuravano allo-
     
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      ra le malinconiche note del Petrarca, che nel silenzio della notte io divorava con avidità! Con quali tenere ispirazioni non temprarono l’acerbità delle mie pene i molti affetti della Gerusalemme liberata!


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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