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      La brigata era di quaranta persone, ed una sarebbe stata la casa che doveva alloggiare tutti.
      Io mi trovava agitata, immaginando il cruccio che avrebbe arrecato a Domenico l’annunzio ditale divertimento, perché nella brigata s’erano insinuati dei giovani, pe’ quali egli sentiva un’ingiusta, ma pure straziante gelosia. Ve n’era uno fra gli altri, il quale, ignaro del nostro amore, aveva confidato a Domenico stesso il segreto della simpatia che disgraziatamente io gli aveva ispirata.
      Appena seppe il progetto, si abbandonò alle più spropositate smanie, e col solito messo mi fece conoscere, che se avessi lasciato Reggio si sarebbe ucciso. Invano Paolo, l’amico suo, gli fece osservare che esigeva da me cosa superiore alla mia volontà, non essendo presumibile che i miei genitori volessero lasciarmi sola; né d’altronde potendo io lottare contro il loro comando. Cercò persuaderlo co’ più efficaci argomenti, promettendogli inoltre ch’egli stesso non si sarebbe mosso dal fianco mio, e m’avrebbe dato il braccio nelle passeggiate, per evitare ch’altri mi avesse approssimata. Gli giurò di più, in nome dell’amicizia che li univa, come schietto e sincero, che al suo ritorno gli avrebbe reso conto della mia condotta rispetto ai rivali immaginarii.
      Rassicurato alquanto da questa promessa, mi precedette di poche ore nel viaggio; talché, non appena giunti al porto di Messina, lo vidi lungo il molo che stava aspettandomi. Egli ci seguì da lontano, e conosciuta la nostra dimora, s’installò in un caffè, donde senza esser veduto da mia madre, potea vedere i balconi della casa da me abitata.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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