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      Le venerande sembianze e la voce di mio padre, ripetute nel volto e nella pronunzia della badessa, mi scossero per modo che credetti di cader tramortita.
      Frattanto le monache accorrevano in folla per vedermi, cacciando la testa le une sulle altre, e salendo per fino sulle seggiole. Né facevano a bassa voce i loro commenti intorno alla mia persona. Chi mi trovava bella, chi brutta, chi simpatica, chi antipatica, chi di contegno docile, chi d’aspetto recalcitrante. Io mi sentiva oppressa, soffocata: avrei preferito di morire piuttosto che entrare per ispontanea volontà in un luogo, dove il libro della civiltà prometteva fin dalla prefazione guarentigie sì scarse.
      I ringraziamenti, raccomandati dalla badessa, furono proferiti non da me stessa, ma sibbene dalla madre, la quale fra le altre cose
     
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      disse come la mestizia del mio volto non dovevasi attribuire ad altra cagione, se non alla morte recente di mio padre, e alla separazione dalla famiglia. Il discorso, non lungo, ma condito di complimenti copiosissimi a nome mio recitati, venne interrotto dall’arrivo dell’altra mia zia paterna, chiamata Lucrezia, la quale, perché accidentata sì alle membra che nel senno, entrò sostenuta da due converse.
      Gli sponsali di Giuseppina erano stati fissati al 2 gennaio 1840. Si fermò adunque col consenso della madre e della zia badessa, che sarei entrata nel convento due giorni dopo le nozze.
      Ritornata in casa, ricusai di prendere alimento alcuno; e fino al giorno fatale, i miei occhi non cessarono di versare gran copia di lagrime.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





Lucrezia Giuseppina