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      Né credo, d’altronde, che voi stesso abbiate in orrore l’umano consorzio; poiché, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide? »
      «A questi quesiti» disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello, «darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un’altra volta da me?».
      Dovetti acconsentire. Era d’altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell’alto ingegno.
      Di lì a due giorni mi richiamò a sé per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch’egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M’intimava pertanto d’indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nella quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d’un altro confessore.
      Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l’ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l’uscita, prima d’avergli promesso l’invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. La lettera fu scritta, benché con mio dolore.
      Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se sembrava di far spiccare la fecondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall’immaginare che l’atto della mia conversione avrebbe richiesto più di una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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