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      Udito il mio rifiuto, cominciò a guardarmi biecamente, poi mi tolse il saluto, finalmente cessò pur di parlarmi; la sua sorella mi odiò viemaggiormente e le altre monache della giovine consorteria fecero a gara d’imitarne l’esempio.
     
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      Un giorno m’abbattei nel dormentorio colla conversa delle due sorelle; quella cameriera ebbe l’impertinenza di fermarmi:
      «Avete avuto l’ardire» mi disse, gesticolando non altrimenti che un lazzarone dell’infima classe, «avete avuto l’ardire di negare alla mia signora il domandatovi camerino! Sapete voi ch’essa e le sue sorelle, avendo portato in questo stabilimento, non una o due, ma ben quattro doti, e non già scarse, ma intere, sono padrone di questo monastero più che non è qualsivoglia altra monaca? E voi, figlia d’un soldato, venuta qui dentro senza mezzi di fortuna, senza danaro contante, voi, ammessa alla professione per atto di carità, voi ardite negare il camerino alla mia signora!».
      Mi tacqui per rispetto a me medesima, benché sapessi non esser le padrone di quella conversa che sorelle di un semplice capitanuccio di reggimento; e che le Caracciolo-Forino avevano, sin dalla fondazione di San Gregorio, introdotto centinaia di doti nel monastero. Però, non potei trattenermi dal riferire a mia madre l’accaduto; al quale rapporto essa mi promise che avrebbe cercato di accomodare l’argomento della dote in modo più confacevole ai pregiudizi delle monache. Ne feci pure in privato qualche cenno alla badessa.
      «Che posso farvi, figlia mia?» rispose essa.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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