Pagina (136/337)

   

pagina


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

      »
      Pochi proverbi sono nella bocca del popolo più veraci di questo:
      «La religione di que’ Tartufi non è, che un oggetto di biancheria: lo indossano, e se lo levano a lor talento: quando è sudicio, lo mandano alla lavandaia.»
      Chiesi l’ufficio d’infermiera, e l’ottenni di leggieri, poiché la maggior parte delle monache lo ricusavano. Ve n’erano talune, che non eransi degnate mai di esercitarlo, come altresì ve n’erano dell’altre, le quali, perché affette da mali cronici, non vedevano le loro compagne da due o tre anni. Nel corso della malattia, e dopo la morte, si suol tessere il processo della suora: gran parte della giornata è spesa nel commentario. Si discute per qual fallo Domeneddio le ha mandata tale o tal altra sofferenza, e quindi la si colloca all’inferno od al purgatorio a seconda delle rispettive passioni.
      Il triennio della rigorosa badessa non aveva piaciuto alla comunità. Nelle sue veci fu a pieni voti (meno il mio) eletta la frivola maestra.
      Una delle precedenti badesse, che molti cordogli avea sofferti durante il suo governo, venne in quel mentre a morire. La malattia fu dolorosa, l’agonia lunga e terribile. Affollate intorno al letto di morte della misera, le monache si dicevano ad alta voce: «Soffre così, per cagione del suo pessimo badessato: Dio la castiga».
     
      [120]
     
      Venne a morte una vecchia conversa, la quale aveva portata una piaga, che dal tallone estendevasi al ginocchio. Mentre io la medicava, suonò il divino ufficio. M’affrettai a scendervi, ma perché la medicatura prese del tempo, trovai la recita del coro incominciata, benché non vi salmeggiassero che cinque sole monache, essendo le altre disperse pei confessionali e pei parlatorii.


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

   

Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





Tartufi Domeneddio Dio Tartufi