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      La pazzia, per mala sorte, le ispirò uno strano desiderio; quello di rientrare al mio servizio particolare, acciocché, diceva, la passata noncuranza si mutasse a suo favore in affettuosa predilezione. A tal fine non rifiniva d’importunarmi, sostenendo che dovessi allontanare Gaetanella, e riprender lei. Gaetanella dall’altra parte, e con più ragione, pretendeva che non dovessi più ricever la matta nella mia stanza. E quando io le diceva: «Ma, non vedi che la sventurata è pazza?» essa rispondeva:
      «Pazza! scusatemi: è pazza per utile suo».
      «Se adunque dissimula, a quale utile aspira? ».
      A questa domanda, Gaetanella si mordeva le labbra, e serbava silenzio imperturbabile; il che veniva da me attribuito al risentimento che la muoveva contro la compagna. Anzi ad evitare qualche conflitto fra di loro, tentai più d’una volta di proibire ad Angiola Maria l’ingresso nella mia stanza: ma costei, prosternandosi a me dinanzi, e percuotendosi il capo con ambo le mani, e strillando e piangendo, ripeteva le mille volte:
      «Deh, non mi scacciate, per pietà! Precipitatemi piuttosto dall’alto della loggia!».
     
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      Convinta dell’insania che l’affliggeva, e che di giorno in giorno sviluppavasi, lasciai libero sfogo all’umanità, né feci più conto dell’incredulità di Gaetanella.
      Allora fu che gli accessi di frenesia incominciarono.
      Era in quel tempo badessa quella donna inetta, che mi aveva fatto da maestra di noviziato. L’avvertii badasse all’alienata, onde a lei medesima e all’intera comunità non accadesse qualche disastro.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
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