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      Sorta l’aurora, scrissi al generale Salluzzi, invitandolo a venire da me. Al vedermi tanto pallida e febbricitante quell’amico generoso non poté a meno di amaramente condolersene. Poco appresso si recava dal canonico Savarese, allor vicario pro tempore, e lagnavasi energicamente con esso lui, del ticchio venuto alla superiora, di farmi fare la custode di pazze.
      Per ordine di Savarese venne a visitar la matta il dottore Cosimo Meo. Costui, nel vederla da lungi, esclamò:
      «Non solo è matta, ma la è pure furiosa. Chiamate tosto il flebotomo».
      Otto robuste converse furono appena bastanti a contenere i suoi furori nel momento che fu oprato il salasso al piede; non cadde dentro la catinella una sola goccia del sangue: spruzzò tutto sulle converse, sul salassatore, ed in gran copia al suolo. Il medico ordinò che molti bagni colla neve sul capo le fossero amministrati, e promise che nella giornata stessa avrebbe mandata una donna del mestiere per domar la furente; esser, del resto, espressa volontà di Savarese, che la badessa trovato avesse un manicomio, essendo quella pazzia, per la forte complessione della sofferente, di quella tale classe, che senza mezzi violenti non si frena.
      Tranquillatami su di questo argomento, scrissi tosto al generale una lettera di ringraziamento. Il mio letto si ricollocò nella stanza della zia, e fui sollecita a coricarmi, non reggendo più in piedi.
     
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      Venne la maestra delle pazze, si diedero i bagni freddi alla sventurata, ma il male infierì. Chiusa adunque in una carrozza colla donna che l’assisteva, fu mandata a Calvizzano, ove un prete teneva una casa di salute per i dementi; ma i rimedi tornarono vani anche colà.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
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