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      Quale raggio consolante di luce nel buio del carcere!
      Perché, profittando del messaggio, che forse la provvidenza mi mandava, perché non avrei battuto anch’io la stessa via? Non era forse vero, non era evidente il pessimo stato di mia salute? Non andava io soggetta ad accessi nervosi, ad emicranie, a spasimi, che logoravano sempre più l’ingracilita mia complessione?
      Pingui, fresche, rubiconde, piene di brio e di beatitudine erano la maggior parte delle altre mie compagne: la spensieratezza, l’ozio, l’apatia conferivano loro, come il pollaio conferisce alle galline. All’incontro io diveniva sempre più pallida e smilza: le gote mie si affossavano, gli occhi si spengevano, i capelli mi cadevano a ciocche.
      Uno dei medici della comunità mi fece il rispettivo certificato, che unito alla supplica spedii senza indugio a Roma. Era tanto sicura del buon esito, che dal giorno stesso della spedizione cominciai a contare le ore e i minuti del tempo che mi restava ancora da patire.
      Diceva fra me stessa: «Ora il corriere consegna la mia supplica: ora Pio IX la sta leggendo con animo disposto al favore: ora sarà già fatta la grazia, firmato l’atto, sigillato il foglio, passato alla rispettiva autorità perché lo mandi a Napoli: fra due giorni sarà di ritorno il corriere: oggi è giovedì; sabato mattina per tempo, a rive-
     
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      derci! Ah! ma queste due giornate saranno per me più lunghe di due secoli!!»
      Frattanto il canonico non sapeva darsi pace di questo mio passo, e cercava d’infiacchire la poesia delle mie speranze con tutti i colpi che in sua disposizione mettevano lo scetticismo della logica ed il cinismo della professione.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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