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      A questo scellerato disegno ostava però la malattia della padroncina; faceva dunque mestieri occultarla a tutti, per quanto era possibile, acciocché le monache non avessero esclusa nel Capitolo la sofferente.
      Ma come potevansi nascondere la tosse e l’affanno? A forza di villanie e di sgridate!
      Se essa la udiva tossire pel corridoio, la sgridava tosto colle maniere le più plebee, od anche, per reprimere il suono della tosse, le chiudeva colla sua mano la bocca. Se l’avesse veduta per le scale in colloquio con qualche monaca, subito le imponeva di risalire facendo cento scalini senza riposarsi. La poverina diveniva livida e ansava in modo, che sembrava lì lì per dare l’ultimo fiato. Io non mancava talora di sgridare la conversa per siffatte brutalità, ma Chiarina dicevami, che, dopo le mie sgridate, i maltrattamenti che da sola a sola facevale soffrire la conversa erano maggiori. Per tale riguardo mi convenne più volte ora raffrenare lo sdegno, ora di non dar corso a proteste, le quali non avrebbero fatto che viepiù inferocire l’animo naturalmente spietato della cameriera.
      Saltò alfine in testa a questa megera l’idea di raddrizzare il corpo alla mia discepola, per meglio nasconderne la deformità; ed a raggiunger tale scopo, le pose un busto colle stecche di ferro. La povera Chiarina, non sì tosto entrata la mattina nella mia camera,
     
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      buttavasi mezza incadaverita sulla seggiola a bracciuoli, e con un fil di voce morente mi diceva:
      «Signora Enrichetta, per pietà, allargatemi il busto: io mi sento soffocare».


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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