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      Maria Giuseppa, la buona mia conversa, l’unica compagna della mia solitudine, non si muoveva dal mio fianco, che per urgente servizio, e, meno esperta di me sulla pretesca simulazione, andava immaginando, per confortarmi, le più folli e chimeriche speranze; alle quali spesso, traendo un sospiro, io rispondeva con quella dantesca apostrofe dell’Astigiano:
     
      Stirpe malnata, e cruda,
      che degli altrui perigli, all’ombra, ride!
     
      Mia madre, del pari, fu inconsolabile, avendo da me saputo che ad altre monache, meno sofferenti, meno accasciate, era stato concesso quello che or veniva vietato a me. Il canonico tentava invano di rattemprarmi il cruccio; non fu possibile. Io mi abbandonava alla più sfrenata desolazione.
      Feci una nuova e più vigorosa istanza, e la mandai a Roma.
      Coerente intanto alla sua promessa, Riario venne più di frequente al monastero. Ogni volta che il campanello chiamava la comunità al parlatorio, io mi sentiva rabbrividire. Per evitare quel disgustoso incontro, avrei dato non so che: ma come fare? Non appena giunto, egli diceva: «E la vostra Caracciolo dov’è?». Benché fremente di dispetto, doveva farmi innanzi e udirmi domandare con voce melliflua come stessi di salute, e se fossi tranquilla d’a-
     
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      nimo: complimenti del carnefice al condannato.
      «Povera figliuola! E così buona! Non si vede, né si fa sentire» rispondeva per me l’ipocrita badessa, solita sempre a lodare le persone nella loro presenza.
      «Brava!» soggiungeva l’eminente visitatore, «così va bene». Un giorno la superiora mi fece mettere nella prima fila.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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