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      In questo mentre si fece innanzi l’abbadessa, e saputo dal cardinale il mio rifiuto, torse sdegnata il viso.
      «Il lavoro sarà fatto immancabilmente» disse in tuono imperioso al cardinale: «glielo farò avviare e terminare io stessa».
      Per più giorni m’annoiò, reiterandomi la domanda, se già l’avessi incominciato, e di quale sorte sarebbe stato. Stizzita alfine dall’incessante molestia, le dissi:
      «Vorreste forse impormelo per disciplina?»
      «Ohibò! spero che lo farete di buon grado».
      «Allora, con vostra buona pace, fatela finita! Io detesto quell’uomo quanto un prigioniero di stato detesta l’autore del suo imprigionamento. Non è forse desso che a viva forza mi trattiene in questo stato di violenza?»
      «Ma lo fa perché ti vuol bene».
      «Mi vuoi bene? obbligatissima! Dio voglia che mi porti odio, invece di quella funesta amicizia».
      «Ora, però» soggiunse l’abbadessa con affettazione, «ora dovresti passartela più tranquillamente. Quelle fraschette delle monache giovani non t’importunano più».
     
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      «Me ne accorgo» risposi: «temono che io, uscita per avventura dal chiostro, non le paghi a contanti come si meritano».
      La superiora si morse le labbra. Seppi di poi che l’argomento del mio congedo, considerato come peccato politico, e messo nel numero degli affari di stato, preoccupava, più ch’io non immaginassi, le autorità; e che tra il Riario, la badessa e il confessore regnava su tal proposito un’intelligenza non meno arcana che intiera.
      Un’altra volta, avendo saputo che dall’ufficio d’infermiera io era stata trasferita a quello di panettiera, il cardinale venne a recarmi le sue congratulazioni (!), e di più a domandarmi de’ dolci, fatti di mia propria mano.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





Riario