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      Un’àncora di speranza era
     
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      tuttavia per me il solo grido di Viva Pio IX, che spesso all’orecchio mi risuonava. Un papa, che di primo tratto erasi dichiarato in faccia al mondo l’amico supremo della libertà, poteva egli mantenersi nell’ammirazione del mondo cristiano, senza concedere in fatto d’ecclesiastica disciplina qualche riforma, tanto rispondente a’ bisogni del tempo, quanto pure a lui suggerita dalle sue proprie convinzioni?
      Incoraggiata da tali riflessioni, presi a scrivere una seconda istanza da essere consegnata in mano propria al Sommo Pontefice. Deposto però il tuono supplichevole, feci uso questa volta di concetti robusti, quali convenivano a’ tempi.
      Dissi adunque schiettamente, lo stato monastico non esser che un residuo di barbarismo orientale: il monastero, non altro che prigione per coloro che non vi erano entrati di buon animo; non avendo io commesso alcun delitto né contro Dio né contro il prossimo, non sapere per qual legge inumana dovessi languire, e morir poi disperata in un carcere; sperare tuttavolta di trovare ascolto nella misericordia di un pontefice il quale all’Italia, alla cristianità promessa aveva un’èra novella di riordinamento. Conchiudeva, che se si volesse persistere a negarmi l’impetrata giustizia, io, intrepida davanti a qualsiasi rischio, avrei finalmente usato della libera stampa, e di più lingue, per notificare al mondo intero l’enormità del mio sagrifizio.
      Non era il papa avverso alla mia uscita. La sacra congregazione dei vescovi e regolari, dalla quale tali pratiche dipendevano, largiva facilmente congedi alle suore, ogni qual volta un medico ne assicurasse la necessità. Non aveva dunque la Santa Sede verun motivo particolare di rigettare la mia domanda; ma l’intoppo esisteva in Napoli, poiché, nella verificazione dell’esposto, la Regola richiedeva il voto dell’Ordinario.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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