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      Quando poì nel 1575 rinnovellavasi il morbo per tutta Italia, senza che penetrasse tra noi, grato, il Comune, cambiava la modesta cappella in un tempio, cui più tardi, nel 1603, si aggiunse il conservatorio: nobile, vasto e comodo fabbricato, posto in uno dei più animati quartieri della città. Poche abitatrici io vi trovai: quattordici oblate, una ventina di educande, e quattro converse. Le oblate vestono l’abito dell’Immacolata Concezione, e le educande, oltre a’ lavori donneschi, s’ammaestrano un pochino anche nelle lettere.
      Da lunghissimo tempo disavvezza alle grandi folle, al flusso e riflusso della piazza, a quel clamoroso favellio, a quell’assordante frastuono di ruote, tutto caratteristico di Napoli, credetti di primo tratto d’essere, per non so quale prodigio, risalita dal regno delle ombre al mondo de’ vivi. Schiarita mi sentii la vista, dilatati i polmoni, rasserenato l’animo. Non vedeva più a me davanti quell’enorme muraglia della clausura, che per nove anni mi avea compresso il petto, e angustiata la respirazione colle strette dell’incubo; sentiva passare gente, carrozze, venditori, truppa: alle finestre io non mi poteva affacciare, perché troppo erano alte; pure, trovandomi così in una delle più belle vie della città, mi potevo immaginare d’esser piuttosto alloggiata in casa particolare, che in monastero. Tutto
     
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      insomma mi parve nuovo, tutto singolare e curioso: l’aria, il suono, la luce, il movimento, e per fino le sembianze de’ miei simili. La mia stessa persona mi parve una pianta esotica, venuta da lontanissimo paese: mi parve, non saprei più dir quale, ma un oggetto di curiosità. Né temerò di passare per esagerata, se, per dipingere quella fase singolare del mio stato interiore, confesserò d’aver più volte interrogato lo specchio intorno alla mia personale identità.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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