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      Gli risposi brevemente che non si fosse data altra pena per me; che del resto poteva dire al suo superiore di non voler più oltre dirigere la coscienza d’una monaca ribelle. Questo secondo suggerimento non era un semplice appiglio; nell’ira mia contro l’abbietto clericume d’Italia, io non sentiva il menomo bisogno di confessarmi.
      Scorse più d’una settimana, e già tutto pareva assopito. La mattina io usciva di casa con mia madre in carrozza, la sera (perché ci si radunava per solito un piccolo crocchio) io non mi muoveva dalla mia camera, ove entrava soltanto qualche dama di mia conoscenza.
      Scorsi quei giorni, arrivò una lettera del vicario, per la quale era io avvertita che un canonico, espressamente incaricato dal cardinale, sarebbe venuto il giorno dopo a parlare con me.
      Venne infatti; e cominciò ad esortarmi in nome di santi d’ambo i sessi, a profondermi lusinghe e promesse, a sfiondar minaccie, a consigliarmi insomma di ritornare prontamente in gabbia. Gli risposi chiaro e tondo: NO!
      Soggiunse, che se motivo della mia fuga era la sospensione dell’assegnamento, quel mensile mi sarebbe stato infallibilmente restituito non sì tosto fossi tornata alla Regola, separandomi dai parenti e rinchiudendomi nel cenobio. Sua Eminenza voleva darmi per favore quello che mi spettava per giustizia.
     
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      Si sfiatò insomma un’ora quel canonico a persuadermi, che l’anima mia trovavasi in pericolo di dannazione, e che disubbidire al cardinale era lo stesso che consegnarmi direttamente al diavolo.
      Risposi, la mia coscienza essere più pura, più tranquilla di quella del suo cardinale; costui piuttosto dover temere le fiamme eterne per aver operato da despota: come mai, ben sapendo la mia ripugnanza per la reclusione, doveva egli fare della mia libertà un affar di stato?


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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