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      Per l’immensa sua devozione alla dinastia borbonica, e pel famigerato suo oscurantismo decorato coll’ordine di Francesco I, non voleva esser chiamato altrimenti che cavaliere.
      Dagl’inchini che fece costui al commissario e dalle parole che si scambiarono fra loro, compresi ch’erano amici di vecchia data:
      cagnotti attaccati allo stesso guinzaglio.
      Mio cognato, che a stento aveva fino a quel punto rattenuto lo sdegno, proruppe in acerbe rimostranze contro la condotta del cardinale.
      «Se non tacete all’istante» gli disse il superiore ecclesiastico, «vi ricaccerò le parole in gola con due schiaffi».
      «Se non andate, e subito, pe’ fatti vostri» soggiunse il commissario, «vi manderò in prigione».
      Afferrai il cognato per un braccio, e scossolo fortemente:
      «Perché vi riscaldate voi» gli dissi; «mentre io che son la vittima taccio? Ora sono giunta al carcere: potete ricondurre la sorella».
      Tutti serbarono silenzio. Il commissario, avuto dal prete della curia la ricevuta della mia persona, se ne partì, ed io accennai alla sorella di alzarsi per non dare al marito l’occasione di compromettersi.
      «Scrivi tosto a Gaeta» le dissi nell’atto d’abbracciarla: «scrivi
     
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      tutto alla mamma, e, per carità, prendi per Maria Giuseppa le stesse cure che ti saresti presa per me!».
      Rimasta sola col birro e coi due carcerieri al fianco, mi fecero salire al terzo piano del fabbricato, quindi mi menarono in una vasta e tetra camera, che aveva l’aspetto d’una prigione da suppliziato:
      due soli pertugi vi davano luce, ma luce scarsa e cupa, per cagione dell’alto palazzo Villanova che vi era di faccia.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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