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      Io, che stava sempre in aspettazione di quella visita, appena udito un insolito andirivieni pei corridoi, uscii ratta della mia stanza, mi precipitai per le scale urtando le monache, che sbalordite mi guardavano, e lanciandomi nel parlatorio, dissi con tono altiero alla priora:
      «Le vostre faccende vi richiamano altrove: lasciatemi sola, vi prego».
      Essa, confusa, licenziossi dal nunzio chiamandolo signor dottore, e volte le spalle, disse a mezza voce:
      «E se fosse pazza un’altra volta?».
      Il nunzio era un uomo nel fiore degli anni e garbatissimo. Fece
     
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      le più alte maraviglie al racconto della mia odissea, ma non avendo giurisdizione diretta sul ritiro, si dolse con cortese sincerità di non potermi porgere l’aiuto, che i miei tormenti reclamavano. Ciò nonostante non prese congedo senza prima assicurarmi che avrebbe messo in opera ogni mezzo, affine di ottenere a mio favore, se non l’immediata uscita, almeno una diminuzione di rigore.
      Nel risalir le scale vidi la priora costernata e in parlamento colle sue monache.
      Approssimatami al crocchio: «Non vi date pena dell’avvenuto» dissi sorridendo alla prepositessa: «mandate pure a dire al cardinale che gli arresti li ho rotti io».
      Non riusciva nuova alla priora quest’aria di canzonatura. Io aveva preso da qualche tempo l’abito di burlarmi di loro, o di farle arrabbiare con ogni sorta di dispettuzzi, memore del motto di quella briccona di Capua: «per pigliar marito bisogna fare l’impertinente».
      La priora fece nota al prete superiore l’avvenuta infrazione, e costui fu il primo che salì da me sbruffando fuoco e fiamme.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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