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      Il cardinale, accortosi oramai che, per accalappiarmi e tenermi, troppo vecchie e sdruscite erano le sue reti, mi prese pel lembo dello scapolare, dicendo:
      «Un’ultima parola! Spero che a Castellamare abiterete in un ritiro».
      «Farò come al mio nuovo vescovo piacerà».
      «Spero che terrete il volto coperto con un velo nero...»
      «Il bruno non è ancora finito: lo porterò».
      Si alzò allora anch’egli, e al suo passare le monache tutte si gettarono a terra genuflesse; questa, per devozione, palpava la falda della sua porpora, quella coll’estremità delle dita gli toccava la mano, indi si baciava la propria: non una che non gareggiasse per ricevere prima dell’altra la sua benedizione.
      Disceso all’ultimo scalino, si volse addietro per dare alle monache l’ultima benedizione. Ravvisatami nella prima fila di esse, «lieta e festosa di mirarlo giuso», «Recitate un’Ave Maria per me» disse, benedicendomi distintamente.
      «Requiem aeternam!» risposi.
      Aperto carteggio col vescovo di Castellamare, lo pregai di non volermi far entrare in monastero: in quanto all’andar fuori, gli annunziai, come una signora vedova, da diciott’anni ritirata in Mondragone, mi prometteva d’uscire meco ogni volta. Il vescovo vi acconsentì pienamente.
      Per ultimo servizio, il cardinale proibì alle mie sorelle di accompagnarmi, e scrisse al vescovo di mandare qualcuno a prendermi a Napoli. Sembrò a quel vescovo stesso tanto capricciosa tale esigenza, che alle mie sorelle, trasferitesi in Castellamare per abboccarsi con lui:
     
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      «Contentatelo.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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