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      Parlare in genere dei difetti d'arte che son nei romanzi dell'illustre scrittore sarebbe inutile, quanto discorrere i pregi di quello del Manzoni. Chi non sa che quei difetti gli ha confessati in certi luoghi l'autore stesso? Chi non sa che quel suo ingegno altero, solitario, chiuso in sé, che trae la ispirazione piú dall'uno che dal molteplice, piú da dentro sé che dal di fuori, non gli permette di variare atteggiamenti e colori, meglio condensa il suo raggio affocato sopra certe figure e scene fantastiche di quello che non si allarghi chiaro e sereno nella vita esterna reale? Chi non sa che, a guisa del poema di Giorgio Byron, il romanzo del Guerrazzi precipita, come torrente, di cascata in cascata, e cerca rupi e scogli contro i quali infrangersi spumeggiando; piuttosto che si devolva pieno ed eguale nell'analisi graduata dello Scott, come fiume in lati e declivi meandri? Ma e chi può negare la potente originalità dello scrittore livornese? Mi si permetta, poiché non mi soccorre un termine di raffronto dalla storia letteraria nostra, di ricorrere a quella delle arti. Il Guerrazzi fra i romanzieri del tempo mi pare quel che Piero di Cosimo fra i pittori dei primi anni del secolo decimosesto. (Non mi si faccia per questo l'ingiuria d'intendere che io voglia agguagliare tutti gli altri nostri romanzieri alla bella scuola pittorica del Perugino e del Ghirlandaio). Figuravano gli altri bellezze ineffabili di vergini e sante: Piero, mostri stupendamente orribili. Studiavansi gli altri di delibare dalle parvenze divine della natura il fiore ideale, e aggraziarla: Piero si piaceva di veder selvatico ogni cosa, e voleva che gli alberi e le viti dell'orto suo cacciassero e stendessero a loro talento intatti dal pennato e dal ronchio i rami ed i tralci, allegando che le cose della natura bisogna lasciarle custodire a lei senza farci altro.


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Conversazioni critiche
di Giosuè Carducci
Sommaruga Roma
1884 pagine 237

   





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