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      Ed egli, colla consueta ostentazione, lo scriveva quella sera medesima ai municipali di Milano: "Avendo a mia disposizione un esercito agguerrito di 100 mila uomini e 200 pezzi di cannone". Possedeva codesto esercito le tre grandi piazze d'armi di Mantova, Verona e Venezia, intorno alla quale solamente si numeravano 72 punti muniti d'artiglierie e di navi. Possedeva, a destra del Po, i forti di Comacchio, Ferrara, Brescello e Piacenza; a sinistra, Pizzighettone, Anfo, Peschiera, Legnago, Cąorle, Osopo e Palmanova; e inoltre i castelli, atti pure contro il popolo a qualche difesa, di Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Reggio, Modena, Rubiera e altri assai.
      L'esercito non era assopito e illuso da pensieri di pace, ma sospettoso, vigile, tracotante: acceso dalle declamazioni dei generali, che solo dal sangue speravano onnipotenza e tesori: acceso dall'ira palese dei popoli, che ardevano di vendicare le sanguinose soverchierie di Milano, di Parma, di Padova, di Pavia.
      Tutto questo formidabile apparato si vide, entro un centinaio d'ore, conquiso come in pugna campale. Che anzi, delle fortezze medesime, rimasero intatte solo Peschiera, Legnago e Ferrara; la custodia di Mantova e di Verona si ebbe a dividere con guardie civiche e con soldati ribelli; Venezia, Palmanova e le altre, nonchč le artiglierie, le polveriere, le armerie, gli arsenali e le navi, furono perdute. Al termine di cinque giorni, rimase di quei centomila schiavi armati, all'obbedienza dell'Austria, poco pił d'un terzo.


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Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
pagine 217

   





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