Pagina (64/217)

   

pagina


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

      E questo era strappato dalle sue sedi: disperso, senza tende e senza viveri, sopra trecento miglia di strade guaste e interrotte: senza avvisi, e in parte, senza comando: trascinando seco feriti e donne; contaminato e funestato di rapine e di crudeltà; non osando più riposarsi nelle case, ma di fuori, nel fango e tra i fossati, fracido dalla pioggia le vestimenta e i calzari, rotto dalla fame, dalle veglie, dal freddo, dalle ferite, dai notturni terrori: avvilito dalla repentina impotenza de' suoi generali e del suo sovrano, e dall'improviso e quasi superstizioso terrore del popolo, che lo incalzava col suono delle campane e col nome di Dio. Pareva in quei giorni che, per esser uomo e poter combattere, fosse quasi necessario ripudiar l'abito e le ordinanze di soldato. Dopo le antiche sconfitte delle armi persiane, e la fuga di Barbarossa, non s'era mai forse mostrata così nuda al mondo la vanità della forza brutale.
      È vero che la vittoria del popolo non ebbe durevoli effetti; ma ciò non toglie che sia stata una vittoria, ciò non toglie che sia un fatto. E la forza che lo produsse, la forza che conquassò in poche ore quella faticosa compagine d'uomini e d'armi, fu cosa vera e viva. Ed è prezzo dell'opera esplorarla e descriverla; e chiarire d'onde fosse venuta: e congetturare se debba credersi interamente sfogata e spenta come le forze sotterranee che progettarono i basalti e le trachiti: o se giaccia inesausta nei recessi delle anime, donde a tempo e luogo prorompere a nuove evoluzioni.


Pagina_Precedente  Pagina_Successiva  Indice  Copertina 

   

Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
pagine 217

   





Dio Barbarossa