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      Il generale Rath si fece strada fino al Duomo, prima "con dolci parole", poi camminando più che di passo, "e perdendo fucili e berretti". Ussari e Reisinger furono cacciati da Camposanto; i granatieri, dall'atrio della Scala; i croati, dal ponte di Porta Romana. A sera, il lavoro delle barricate era immenso; dovunque si udiva un picchio di sassi e di ferri. Ma fra i vari rioni era interrotto il passo. La sventura del municipio rimase ignota in casa Vidiserti; nessuno recava novelle a capi che non sapeva ove fossero, o chi fossero, o se vi fossero. "I più ardenti", confessa uno di loro, "invece di rannodarsi, di recarsi serrati in mezzo del popolo, si dispersero a dar minuti provedimenti". Uno spirò sotto le prime fucilate; altri era fuori di città; altri alle barricate; altri, per commozione delirava. Ma rimase la fatale preoccupazione che i combattenti dovessero attinger valore e consiglio nella mansueta congrega del municipio. E anco il municipio era prigione o disperso.
      Ov'erano quelle arcane società intorno al numero, alla potenza, alla onnipresenza delle quali avevano tanto per tant'anni favoleggiato le emigrazioni e le polizie? D'onde attendevano ancora l'iniziativa? Un giovine "che non aveva appartenuto a società secrete, nè alla nobile consorteria delle dimostrazioni", Enrico Cernuschi, era uscito senza progetti, ma era corso a mettersi accanto a Casati e compagni: "combattere i tedeschi", egli scrive, "era il pensiero generale; vegliare, spingere i nobili era il mio, dappoichè si era voluto, ad ogni costo, metterli in cima". Già fin dal mattino aveva presagito che la processione finirebbe nel sangue; e ancora in Broletto, aveva tratto fuori una sciabola, gridando guerra; ma Borromeo l'aveva rattenuto.


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Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
pagine 217

   





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