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      Le donne apprestavano bende e filacce, cartucce e palle; gli alunni del seminario apportavano i loro peltri; giungevano amici dal lago e dalle valli; e Francesco Scalini adduceva una squadra di 60 carabinieri ticinesi. La giornata valse ai cittadini una ventina di feriti o morti; ma un centinaio a' nemici, i quali restarono rinchiusi, senza notizie e senza viveri. A Bergamo, l'arciduca Sigismondo, vedendo surgere d'ogni intorno le barricate, ingrossare il popolo e ridutti i croati a difendersi bruttamente dalle finestre delle caserme, fece chiedere a sera un abboccamento col comitato; e per gli operosi offici del conte Lochis, ottenne pur troppo che i cittadini sospendessero le offese, promettendo che i soldati non andrebbero a combatter Milano, e ch'ei medesimo non uscirebbe dalla sua dimora, se non accompagnato da guardie cittadine. Poi nella notte fuggì.
      Un altro arciduca, Ernesto, correva simil pericolo quella medesima sera in Lodi; ma la fanteria del presidio era italiana, inciampo al furore del popolo. S'intimò ai cittadini di consegnare al municipio le armi. I più deliberati, anzichè cederle, uscirono recandosi al soccorso di Milano; e così quel passo dell'Adda rimase sicuro al nemico, che per assicurarsi prese in ostaggio onorevoli cittadini.
      Qui hanno fine, e non parrà vero, i fatti d'arme della terza giornata in tutto il Lombardo- Veneto.
      Al di fuori, Parma ebbe tre ore di combattimento, in cui cadde un colonnello d'ungaresi con alcuni officiali e parecchi soldati italiani; il duca, accerchiato nel suo palazzo, offerse ai cittadini la consueta esca d'una costituzione; e tornando alla vita errante della sua stirpe, lasciò lo stato a una reggenza.


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Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
pagine 217

   





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