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      In quel terzo giorno, se consideriamo in generale, vediamo rotto l'equilibrio tra l'esercito ed il popolo, tra l'autorità e l'insurrezione. L'esercito cede materialmente e moralmente. Cede materialmente il possesso delle vie e de' publici edifici; abbandona in Milano e in Como la Gran-Guardia, che è il contrasegno del comando di piazza e del dominio militare d'una città; perde il possesso delle porte in Como e in Bergamo; divide per patto la custodia delle porte e la perlustrazione delle vie in Verona, in Mantova, in Vicenza, in Brescia, in Cremona; lascia alla balìa dei popoli le persone dei principi in Verona, in Bergamo, in Modena, in Parma e li riduce a trarsi d'impaccio con basse simulazioni. Cede moralmente, perchè discende dal punto fermo del diritto militare, il quale considera la resistenza come un delitto, e il combattente come un malfattore, e intavola colle rappresentanze civiche, più o meno incorporate coll'elemento ribelle, trattative regolari, che vengono sancite anche da intervento consolare, e riconoscono più o meno, e consacrano in massima, il diritto dell'insurrezione. "Con ribelli non si tratta": questo è il principio della legge militare; dunque: con chi si tratta non è ribelle; la sedizione si trasforma in guerra; e la bilancia della guerra pende in favore del popolo, in una misura rappresentata dal terreno che il soldato gli cede. Sarebbe stato più provido e anche più onorevole per l'esercito l'aver lasciato volontariamente quello spazio prima del conflitto; e aver ricusato la battaglia per alte ragioni di stato e d'umanità, piuttosto che perderla per manifesta impotenza.


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Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
pagine 217

   





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