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      Si concede; ma uno dei loro officiali invita i croati a partir seco lui. Cesare Paravicini gli rinfaccia ch'è un mancar all'onore; si getta fra le due colonne; intima ai tedeschi di partire, ai croati di deporre le armi. Tosto si promulga un appello: "Milano combatte. Chi ha un'arme, si accinga a partire". Sopravengono altre turbe dai monti e dai laghi; la notte si vigila fra concenti militari.
      A Como, nel corso di quel giorno, s'arresero tre caserme con forse 800 croati, e alcuni ussari e cacciatori. In una delle capitolazioni si legge: "La truppa, tutta chiusa da infinite barricate, senza pane da oltre due giorni, e senza speranza umana di poterne avere, minacciata da immediato incendio e cannonamento, dopo aver tentato invano due sortite, fu costretta a venire alla seguente capitolazione"... Il barone Diesbach prigioniero scrive a sua madre: "Se siamo profondamente addolorati del nostro caso, abbiamo il conforto d'esser trattati nel modo più delicato e amichevole". Rimaneva ormai la sola caserma fuori di Porta Torre, da ogni parte assediata, sotto una tempesta di palle, a lato a due fenili che il popolo aveva posti in fiamme; la notte interruppe il combattimento. Era tra gli uccisi Luigi Nessi; tra i feriti Arcioni, capitano dei ticinesi. In quel giorno il popolo di Valle Intelvi e Valle Solda disarmò croati e tedeschi. Quasi tutte le 900 guardie di finanza del confine comasco offersero le loro braccia. Francesco Dolzino di Chiavenna disarmò il presidio di Morbegno.
      A Bergamo, risaputa la fuga dell'arciduca, il popolo furibondo abbattè le aquile imperiali, prese la polveriera, assediò i croati, che si esibirono a sgombrare, purchè scortati dalle guardie civiche e dai sacerdoti col crocifisso.


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Considerazioni sul 1848
di Carlo Cattaneo
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